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venerdì 4 ottobre 2013

Refranes, se non siete amanti dell’eloquio meglio che cambiate città, a Buenos Aires piace parlare.

La scrittura induce a una disattenzione, una atrofia dell’arte della memoria. Però la memoria è la «Madre delle Muse», il dono umano che rende possibile l’apprendimento.

G. Steiner, Lecciones de los maestros

Una bottiglia di vino, un tavolo intriso di discorsi, sottofondo in dos por cuatro. Se non siete amanti dell’eloquio meglio che cambiate città. A Buenos Aires piace parlare. Le gole si consumano su un indescrivibile tutto. Grandi lettori gli argentini, non pensiate mai di fare i furbi citando titoli che non destreggiate. Grandi appassionati di sport. Io venni punito sonoramente ad una festa dove mi si chiese per che squadra tifassi: “beh ovvio per la Fiore, sono di Firenze”. Pensavo che si sarebbero accontentati del solito “eh el Bati un héroe para nosotros”. Finii per essere interrogato a marca stretta sui cori della curva Fiesole e, ahimé, con pessima figura dovetti ammettere che io in realtà di calcio non ne sapevo assolutamente niente. E quando curioso di tanta contezza dello spavaldo porteño chiesi come facesse ad avere una conoscenza così capillare del mondo del calcio, tanto da sgamare il mio bluff, la risposta fu decisa, icastica e definitiva: “A mamà mona con bananas verdes?”

refranes

E certo i refranes; parola che al nostro udito suona piú simile a refrain ovvero ritornello ma che in realtà va tradotta come proverbi. Sintesi per eccellenza nella cultura popolare, di una conoscenza che si eleva a metafora, a motto, a postulato. Se saputo usare il refrán è una specie di zeta di Zorro con la quale si può mettere il punto definitivo all’analisi di un accadimento.

Ma non è tanto questo l’aspetto che mi interessa dei refranes porteños quando arrivano impetuosi e impietosi al mio udito. No, quello che mi interessa è che li riconosco. Mi spiego meglio. Questa città è un calderone di etnie e sfumature culturali. Ci siamo tutti qui dentro e la lingua svolge un compito importante perché è un codice nato proprio da questa misticanza convenuta sulle sponde del Rio de la Plata. Ora, questi proverbi sono stati portati con le valigie e solo successivamente passati alla lingua del luogo. Sono quel bagaglino sapienziale che ci rimette in contatto con i nostri avi e non solo. Essi riconfermano un dato di fatto: la nostra indiscutibile appartenenza alla razza umana.

E allora se “chi dorme non piglia pesci” è bene sapere che “Cocodrilo que durmió: cartera” Con un notevole stacco comico rispetto alla versione italiana già che qui entra il tema della morte. Poi però se “de tal palo tal astilla” allora “tale padre tale figlio”. E non scordiamoci che “chi si alza presto guadagna un giorno” per questo “quien madruga dios lo ayuda”. Certo questo vale se sei uomo o donna di lena e di fatica. Tuttavia “no por mucho madrugar amanece mas temprano” che poi stornato alla moneta d’un napoletano verace viene “Hai voglia ‘e mettere rum… chi nasc’ strunz nun po’ addiventà babbà”. E quindi prendiamo atto che le cose hanno bisogno del loro naturale svolgimento per compiersi o esprimersi su questa terra.

Io però l’ho presa veramente di punta questa storia dei refranes. Così le mie cene bonaerensi hanno sempre un angolino di ilare discussione sui proverbi argentini. Ce ne sono alcuni che adoro, anche se nell’immediato non ho trovato nessuna corrispondenza nella mia lingua. Sarà che magari gli archetipi giacciono nelle valigie di migranti di altri paesi. Prendete questo ad esempio: “para muestra basta un botón” È bellissimo, e rimando a voi lettori le collazioni del caso. Sarebbe come dire che per capire qualcuno o qualcosa è sufficiente poco. Quello che mi garba del costrutto lessicale di questo motto è l’uso del basta come verbo, nel senso di “è sufficiente, è abbastanza”, esattamente come si usa in italiano. Io qui in Argentina non lo avevo mai sentito usare così. Basta come avverbio sì: Basta! No me hinches mas la pelotas.

Un altro proverbio che mi è arrivato direttamente dal pueblito di Salliqueló è il seguente: “se hizo el boludo como peludo que se cogió a un charango” Complicatissimo. Il peludo è l’armadillo, e il charango è lo strumento a corde che originariamente si costruiva con la parte cornea dell’armatura dell’armadillo. Il verbo coger non abbisogna di traduzioni tra i lettori di questo blog che facilmente saranno giunti al nucleo intorno al quale ruota l’equivoco del povero animale protagonista di sto proverbio.

Ce n’è un altro che tutte le volte che lo uso la gente mi guarda con compiaciuta soddisfazione, è una specie di briscola dei refranes porteños, con la quale tutti si trovano d’accordo: “billetera mata galán”. Vangelo.

Però vorrei chiudere questa notina leziosa e inutile con un refrán che mi venne presentato previa breve spiegazione e che qui vi riporto. L’origine del proverbio si farebbe risalire alla storia di un gaucho che trovato in casa dalla moglie a fornicare con un’altra donna, ebbe egli l’ardire e la faccia tosta di rispondere così: Acá se coge! Estés o no estés.

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